Usa. Trump e la strategia dei dazi

di Giuseppe Gagliano

L’annuncio di nuovi dazi da parte dell’amministrazione Trump segna il ritorno di un protezionismo muscolare che, più che una mossa di politica commerciale, si configura come una strategia elettorale in vista del 2028. La narrativa è chiara: gli Stati Uniti come vittime di un sistema economico globale che li penalizza, la Cina come il grande nemico, e i vicini – Canada e Messico – come complici involontari di una politica che danneggia l’America.
Ma cosa significa davvero questa mossa?
L’aumento del 10% dei dazi sui prodotti cinesi si inserisce in una lunga tradizione di tensioni commerciali, alimentate dal presunto ruolo di Pechino nella crisi del fentanyl. Una retorica che funziona bene sul piano interno, ma che ignora il fatto che la lotta alle droghe sintetiche non si risolve con misure tariffarie. Se la Cina fosse davvero il problema principale, allora perché colpire anche Canada e Messico con dazi del 25%?
Trump accusa entrambi di non controllare il flusso di droga e migranti. Un’accusa che rivela la vera natura di questa politica: creare un clima di pressione per ottenere concessioni su più fronti, dall’immigrazione agli accordi commerciali. Il problema è che, così facendo, il rischio è quello di inasprire i rapporti con due partner fondamentali per l’economia americana.
Le dichiarazioni sui dazi del 25% contro l’Unione Europea ricalcano il solito copione trumpiano: Washington non vuole competere in un sistema multilaterale, vuole riscriverlo secondo le proprie regole. E se l’Europa non cederà, scatteranno nuove misure. Ma il punto è un altro: è davvero nell’interesse degli USA colpire il proprio principale alleato strategico, mentre la Cina rafforza le proprie reti commerciali in Asia, Africa e America Latina?
Sul breve periodo, il protezionismo può galvanizzare una parte dell’elettorato americano. Ma sul lungo periodo? L’aumento dei costi per i consumatori americani, le tensioni diplomatiche e il rischio di ritorsioni commerciali potrebbero rendere questa strategia insostenibile. E se l’obiettivo è la reindustrializzazione, si dovrebbe piuttosto lavorare su investimenti e innovazione interna, non su barriere doganali che rischiano di isolare gli Stati Uniti.
In definitiva Trump gioca una partita già vista, con mosse spettacolari ma dagli esiti incerti. Il vero problema è capire se questa politica commerciale sarà un’arma efficace o un boomerang che rischia di colpire l’economia americana più duramente di quanto colpisca i suoi avversari.