Giovanni Caruselli –
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca non deve sorprendere troppo chi ha una visione realistica di ciò che i cittadini statunitensi temono e desiderano. In primo luogo bisogna tenere presente che gli elettori statunitensi guardano all’economia molto più di quanto avvenga al di qua dell’oceano. L’ultimo surplus commerciale degli Usa risale al 1970, e dalla fine degli anni Novanta il disavanzo di Washington è diventato un deficit cronico con la Cina e altri Paesi. Tuttavia gli statunitensi sanno bene che ciò non è imputabile nè ai democratici nè personalmente a Biden che, anzi, ha praticato scelte vincenti, lasciando gli Usa con un tasso di disoccupazione vicino allo zero e una moderata stabilità della borsa. Non si poteva pretendere che cancellasse un debito pubblico che cresceva da decenni, e neanche che azzerasse la diseguaglianza sociale, o l’invecchiamento della popolazione. Dunque gli osservatori si chiedono a ragione come Trump abbia vinto le elezioni, considerando anche le previsioni più recenti che lo davano perdente, sia pure di poco.
Le spiegazioni vanno individuate diversamente. Sul voto ha giocato la debole riproposizione degli Usa come numi tutelari del mondo libero e del libero commercio, sostenuta stancamente dai democratici e da una Harris per nulla convincente. Il mondo del terzo millennio non è più il mondo della Guerra fredda, e per la maggioranza della popolazione planetaria, cioè per i BRICS, quello che fu “l’asse del male”, guidato oggi dalla Cina, costituisce l’unica speranza di emancipazione da un’arretratezza che l’occidente ha voluto ignorare. Gli elettori statunitensi credono che Trump sarà capace di riportare le manifatture di piccole dimensioni e il lavoro negli Usa. Ma le strutture produttive del terzo millennio sono altamente tecnologizzate e l’apporto della manodopera non specializzata è minimo.
La realtà che ormai da anni anima le discussioni fra gli intellettuali d’oltreoceano è il declino degli Usa, direttamente proporzionale all’ascesa di Paesi che producono, consumano ed esportano sempre di più. In questa situazione sostenere ancora il dogma del libero mercato come intoccabile appare agli occhi degli americani come un suicidio premeditato. La globalizzazione e l’orgia delle delocalizzazioni hanno ingrassato ancora di più la grande finanza e danneggiato la produzione interna, ma è ora che la musica cambi. E Trump si è presentato come il nuovo direttore d’orchestra.
Probabilmente gli americani hanno attribuito al decennio di governo dei democratici la crescente disparità dei consumi e dei redditi. Il 40% dei detentori dei redditi più bassi consuma il 20% delle merci disponibili sul mercato e il 20% di chi dispone dei redditi più alti ne consuma il 40%. La nuova età dell’oro promessa da Trump non poteva esprimere meglio il disagio della classe media e le sue ambizioni sociali. L’inflazione, che ormai sembra sotto controllo, ne ha falcidiato i risparmi, ha messo in pericolo la proprietà delle abitazioni ancora gravate da mutui, colpito pesantemente il piccolo commercio.
Usando il linguaggio calcistico potremmo dire che la strategia trumpiana è stata dichiaratamente difensivistica e in un certo senso nostalgica, tutta rivolta alla restaurazione del “sogno americano”.
Dunque nella narrazione trumpiana i dazi, la lotta all’immigrazione irregolare, l’unilateralismo e un incipiente isolazionismo dovrebbero proteggere le fabbriche statunitensi dall’industria automobilistica europea, dalle macchine elettriche cinesi, dall’importazione di beni alimentari dall’Europa, e conservare i posti di lavoro in pericolo. Il grande Donald fa finta di ignorare che le fabbriche tedesche create negli Usa danno lavoro agli americani e che Pechino detiene gran parte del debito pubblico statunitense, ma questi dati poco contano nella sua visione retorica e esasperatamente ottimista. L’amministrazione Biden ha tentato di frenare l’aggressività cinese nell’Indopacifico e quella russa in Europa, riproponendo la NATO come presidio militare del mondo libero. Ma tutto ciò era in cima ai pensieri degli elettori che hanno bocciato la Harris alle urne? Evidentemente no. Nella politica estera, che non interessa molto agli americani, il vero elefante nella stanza è la perdita di forza, di prestigio e di credibilità (si pensi all’Afghanistan) della bandiera a stelle e strisce.
I leader populisti, adeguatamente consigliati, sono capaci di comprendere il cuore dei problemi e il sentiment della gente comune. Per questo il motto di Trump, ricostruire la grande America, per la seconda volta si è prestato ottimamente a infondere entusiasmo in masse poco scolarizzate e impaurite dai flussi migratori provenienti dal Messico e dal centroamerica. Ma non soltanto in esse perché le prime analisi del voto mostrano che una discreta percentuale di esso è venuta da categorie sociali alfabetizzate e informate. Perché combattere per qualche provincia ucraina, o per l’indipendenza di Taiwan o per mettere ordine in un Medio Oriente in fiamme, quando è ormai chiaro che Washington da tempo non è più nelle condizioni di imporsi con la forza in tutte le aree geopolitiche del pianeta? A costo di apparire semplicisti si potrebbe dire che il desiderio della sicurezza personale ed economica ha prevalso nettamente sul dogma quasi “missionario” che ha sempre voluto gli Usa alla guida del mondo libero. Non che questo giustifichi le campagne elettorali condotte all’insegna dell’esasperazione dell’emotività della massa, ma ne spiega comunque l’efficacia. Adesso toccherà all’intellighenzia repubblicana e anche a quella democratica delineare i principi di un nuovo ordine mondiale in cui i conflitti economici non si trasformino in guerre e distruzioni, e pilotare un atterraggio morbido in cui l’America First di Trump lo sia veramente, nella ricerca di un sistema planetario orientato più alla pace che alla supremazia tramite la forza.