Usa. Corte suprema: l’assist di Trump a TikTok

di Domencio Mauceri *

SAN LUIS OBISPO (Usa). “Il presidente Trump è l’unico a possedere la competenza perfetta negli affari… per negoziare una soluzione che salvi la piattaforma”. Queste le parole scritte da D. John Sauer, legale di Donald Trump, in un intervento di amicus curiae alla Corte suprema che il 10 gennaio esaminerà la validità della legge su TikTok. Parecchi mesi fa la legislatura americana aveva approvato in maniera bipartisan una legge, firmata anche da Joe Biden, secondo cui i proprietari di TikTok devono vendere la piattaforma a enti americani. La legge era stata approvata poiché la società madre di TikTok, ByteDance, è di proprietà cinese e si temeva che le informazioni private di utenti americani potessero essere abusate dal governo cinese, causando problemi alla sicurezza degli Usa.
All’inizio del mese di dicembre dell’anno scorso una corte federale aveva confermato la costituzionalità della legge, reiterando le preoccupazioni del governo sulla sicurezza. Poi i legali di TikTok hanno fatto un ricorso di emergenza alla Corte Suprema che ha accettato di riconsiderare la decisione della corte inferiore. Difficile capire le motivazioni della Corte Suprema per esaudire la richiesta. Quattro giudici della Corte Suprema devono essere favorevoli per accettare nuovi casi e solo il 4 percento di tutti i ricorsi vengono accettati. Ciò vuol dire che la stragrande maggioranza delle decisioni delle Corti dei Distretti Federali sono finali. Il fatto che la Corte più alta del Paese abbia accettato di considerare la legge vuol dire che ci sono possibilità di ribaltare la decisione e mantenere TikTok nelle mani dell’azienda di proprietà cinese.
L’intervento di Trump aggiungerebbe legna al fuoco a questa ipotesi anche se, come spesso fa il neoeletto presidente, si tratta di un intervento fuori dalle righe. Al di là del linguaggio usato che farebbe pensare a un comunicato di campagna elettorale, Trump ha espresso opinioni diverse e contraddittorie al riguardo di TikTok. Da presidente nel 2020 un suo ordine esecutivo cercò di frenare le operazioni di TikTok negli Usa perché “la collezione di dati permetteva l’accesso di informazioni private di americani al Partito Comunista Cinese” che potevano persino “interferire nelle mansioni di dipendenti federali e potenzialmente ricattare questi individui”. Esattamente le preoccupazioni di Biden che lo indussero a promuovere la legge che adesso Trump vorrebbe fosse sospesa dalla Corte suprema.
Che cosa gli avrà fatto cambiare idea? Nell’amicus brief, Sauer, che Trump ha nominato come Solicitor General, il rappresentante del governo alla Corte Suprema, include il fatto che il neoeletto presidente usa TikTok e ha 14 milioni di follower. Infatti, Trump ha beneficiato dall’uso di TikTok nella campagna elettorale del 2024. Le argomentazioni di Trump alla Corte Suprema specificano che TikTok comporta un “mezzo di comunicazione unico per la libertà di espressione, incluso idee politiche fondamentali”. Trump dunque vede la piattaforma allo stesso modo delle altre: la libertà di comunicare direttamente con la gente senza filtri, spesso usando disinformazione, esattamente come fa il suo amicone Elon Musk, padrone di X (già Twitter).
Difficile giudicare se la legge approvata dall’amministrazione sia appropriata o no. Di certo si tratta di uno scontro tra un governo e una delle principali piattaforme globali. Sappiamo però, come abbiamo scritto in queste pagine, che le piattaforme non si autoregolano eccetto in casi rarissimi. Uno di questi è avvenuto dopo gli assalti al Campidoglio il sei gennaio 2021 per i quali Trump fu giudicato responsabile non solo dai democratici ma anche dalla leadership repubblicana. Ma anche le piattaforme principali raggiunsero la stessa conclusione poiché bloccarono tutti gli account di Trump. In sintesi le piattaforme giudicarono Trump di incitare la violenza che causò la morte a parecchie persone e centinaia di feriti oltre ai danni fisici alle strutture governative ma anche alla democrazia americana. Le scene violente degli assalti al Campidoglio fecero il giro del mondo e diedero l’impressione che si trattasse di un Paese sottosviluppato invece di un Paese che molti vedono come faro della democrazia.
La paura degli Usa di una piattaforma potenzialmente controllata da un Paese rivale come la Cina dovrebbe spingere a serie riflessioni per la loro influenza in politica. Lo vediamo da mesi con gli interventi di Musk non solo in politica americana ma anche nelle sue incursioni nei maggiori Paesi europei. In America questa influenza si vede anche con i comportamenti dei padroni delle piattaforme che si stanno inchinando all’imminente secondo mandato di Trump, contribuendo milioni di dollari per le festività dell’inaugurazione del 20 gennaio. I media tradizionali sono in ritirata. L’ultimo campanello di allarme ci viene offerto dalle dimissioni di Ann Telnaes, vignettista del Washington Post, vincitrice di un premio Pulitzer. L’ultima vignetta della Telnaes che ritraeva Sam Altman di Open AI, Jeff Bezos, di Amazon e Washington Post, Mark Zuckerberg di Facebook, Patrick Soon-Shiong, proprietario del Los Angeles Times, e Topolino, rappresentante di Disney World, inginocchiati davanti a un imponente statua di Trump che gli offrono sacchi di denaro, è stata bloccata dal Washington Post. La prima volta che ciò succedeva alla Telnaes.
Un altro campanello d’allarme più potente è stato annunciato da Zuckerberg. Il padrone di Meta ha dichiarato che le sue piattaforme―Facebook, Instagram e Threads― ridurranno notevolmente il fact-checking, che dopotutto non è mai stato talmente rigido. Zuckerberg ha giustificato la decisione che in questo modo si ridurrà “la censura”. In effetti, Zuckerberg ha copiato il sistema inefficace di Musk su X che abbonda di disinformazione.

* Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.