di Lorenzo Pallavicini –
Per la prima volta nella storia della Ue è stata introdotta la figura del commissario preposto alla Difesa, e il ruolo è stato affidato al lituano Andrius Kubilius, ovvero a un paese baltico tra i più esposti al pericolo russo. La novità è una prima risposta a una delle mosse più significative seguite all’invasione dell’Ucraina nel 2022, il definitivo ritiro dalla Russia dal Trattato sulle forze convenzionali in Europa, già oggetto di sospensione da parte russa dal 2007.
Tale anno fu uno spartiacque nei rapporti con l’occidente perché coincidente con uno dei discorsi più importanti pronunciati dal presidente russo, quello della Conferenza annuale sulla sicurezza a Monaco in cui denunciò decisioni unilaterali in materia di sicurezza globale da parte della NATO e la necessità di cambiare l’ordine unipolare a guida statunitense.
L’uscita dal Trattato rappresenta un punto di non ritorno per la Federazione Russa, che costruisce solide alleanze militari come quella con la Corea del Nord che possono portare persino all’utilizzo di truppe straniere su suolo russo nell’ambito della guerra in Ucraina internazionalizzando il conflitto, mentre da parte ucraina il sostegno occidentale non può tradursi nell’invio di truppe militari NATO.
L’Ue, basandosi ancora su regole complicate, come ad esempio l’unanimità, deve rispondere a tale guanto di sfida, in cui le sanzioni economiche e gli aiuti militari a Kiev, per la gran parte americani, non bastano a portare a negoziati con il Cremlino.
La sola sospensione dal Trattato sulle forze convenzionali decisa dalla NATO come risposta alla Russia infatti non è sufficiente per tenere il passo nella produzione bellica sugli armamenti, pari nel caso russo ad oltre il 6% del proprio PIL, dove la catena di comando è assai più corta e rapida nella sua realizzazione e in cui l’industria bellica europea, seppur di qualità, sconta limiti burocratici.
L’Europa dal punto di vista bellico appare ancora troppo legata all’alleato statunitense, che vale circa il 70% dell’intero potenziale, un problema di dipendenza da Washington che, a differenza dell’Ue, conserva un ruolo geopolitico di potenza mondiale, riconosciuto anche dagli avversari grazie al suo enorme arsenale militare.
E’ improbabile che l’elezione di Donald Trump alla presidenza porti a un disimpegno americano negli armamenti e nel sostegno ai paesi NATO. Tuttavia è chiara l’intenzione da parte della nuova amministrazione di focalizzarsi sui problemi economici interni e sul vincere la competizione commerciale con la Cina, in cui la Russia è vista come un problema minore in considerazione della sua inferiore competitività economica rispetto a Pechino.
Lo sforzo del 2% del PIL per la difesa previsto nel summit Nato in Galles nel 2014 non è più sufficiente per far fronte a tali sfide e pone l’Europa di fronte a scelte complesse, in cui i piani che hanno caratterizzato il primo quinquennio von der Leyen, Green new deal e Next Generation EU, in certi casi portatori di regolamenti complicati per le imprese europee, possono venire stravolti da queste nuove priorità.
La vittoria schiacciante di Trump, pur con le differenze tra elettori americani e europei, deve essere un monito per la nuova Commissione europea, a maggioranza similare a quella del 2019. Se infatti non verranno fatte reali riforme in materia di difesa, immigrazione e semplificazione amministrativa, i rischi di vulnerabilità economica e militare potrebbero crescere e rendere l’Unione stessa più debole di fronte alle sfide geopolitiche globali.