di Shorsh Surme –
Il presidente Bashar al-Assad è fuggito, probabilmente in Russia, dopo che i “ribelli”, in realtà una costellazione di sigle guidata dagli eredi del gruppo qaedista Jabat al-Nusra, hanno preso il controllo delle principali città siriane e sono entrati a Damasco, in un caos generale con funzionari e cittadini fedeli al regime presi dal panico.
Il leader della rapida offensiva, Abu Mohammed al-Julani, oggi a capo di Tahrir al-Sham, è stato membro di al-Qaeda per poi passare all’Isis, salvo poi separarsi per una serie di contrasti con al-Baghdadi e tornare a giurare fedeltà al capo supremo di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri. Al-Julani (soprannome con riferimento al Golan occupato da Israele) è indicato dal dipartimento di Stato Usa come terrorista internazionale, nonostante le sue rassicurazioni circa l’intenzione di non voler colpire l’occidente.
Fatto sta che la Siria è oggi in mano sua, ed è da vedere quali saranno le reazioni internazionali, a cominciare dall’alleato di Bashar al-Assad, la Russia, che in Siria ha fin dai tempi dell’Unione Sovietica due importanti basi, una navale a Tartus e una aerea a Hmeimim, nei pressi di Laodicea. Già due giorni fa le cinque navi russe ormeggiate a Tartus, base concessa nel 1971, si sono allontanate dal porto, ma va considerato che la Russia è già impegnata nel sanguinoso conflitto ucraino.
Certo è che senza le informazioni di intelligence, i dati satellitari e le armi di potenze straniere difficilmente al-Julani avrebbe potuto condurre una campagna così veloce e di successo, nonostante tra le fila dell’esercito siriano vi siano state numerose diserzioni con cambio di bandiera.
L’opposizione ha così potuto dichiarare in un messaggio che “Dopo 50 anni di oppressione sotto il governo del Baath e 13 anni di criminalità, tirannia e sfollamento, oggi annunciamo la fine di questa era oscura e l’inizio di una nuova era per la Siria”. Certo è che senza il comandante in capo l’esercito regolare è allo sbando e, come ha riferito la tv al-Arabi, “la maggior parte degli ufficiali dell’esercito del regime si sono diretti verso la costa siriana”. Se non fosse per la drammaticità degli eventi sembrerebbe di rileggere la storia tracciata nei libri di Amin Maalouf.
Al primo ministro siriano, Mohammed Ghazi Jalali, non è restato altro che tendere una mano alle opposizioni, sottolineando in un messaggio che “io sono a casa mia e non ho lasciato il paese, e questo per il mio attaccamento alla patria”. Al-Golani ha così chiesto a Jalali di rimanere al suo posto per facilitare la transizione dei poteri.
Come ad Aleppo e nelle altre città diversi cittadini sono scesi in piazza esultanti, mentre altri sono in fuga per il timore delle vendette, ma anche per il rischio dell’instaurazione di un regime islamico in un paese composito, con una miriade di antiche minoranze etniche e religiose.
Lo stesso al-Julani avrà con tutta probabilità difficoltà a gestire il potere davanti a realtà come quella di gruppi curdi, cristiani, sciiti e quant’altro armati fino ai denti. Oggi ha preso le distanze da al-Qaeda proponendosi come fautore di un potere civile (non si sa quanto democratico, con buona pace della stampa occidentale), e come ha spiegato Joshua Landis, esperto di Siria e direttore del Centro per gli Studi sul Medio Oriente dell’Università dell’Oklahoma, “è stato più astuto di al-Assad. Ha rifatto la propria immagine, stretto nuove alleanze e lanciato una charm offensive”, ma la vera sfida sarà quella di tenere unito il suo fronte fatto di gruppi e sottogruppi che col tempo potrebbero rappresentare la sua fragilità. Anche perché Iran e Russia non staranno a guardare, come neppure le potenze occidentali, Usa e Ue in primis, i cui leader si sono già dati appuntamento per discutere del “dopo al-Assad”. Perché la Siria, con la sua posizione strategica, schiacciata tra Turchia, Iraq e Israele, interessa a tutti.