di Gianvito Pipitone –
Qualsiasi discorso sulla geopolitica mondiale non può prescindere dalla Russia, che occupa all’incirca il 12% delle terre emerse. Qualunque aggettivo che esprima grandezza e vastità le sta decisamente stretto. Ovunque ci troviamo, dal mare di Bering al confine con l’Alaska, fino alle porte dell’Europa, dalle sterminate steppe che segnano i confini con i vari stati turcofoni (i vari “–stan”), la Mongolia e la Cina, fin su al nord nel Mare Artico, è sempre Russia. Un paese immenso, a cavalcioni fra Europa e Asia, dove ancora al giorno d’oggi per attraversarlo in treno si impiegano non meno di 5 giorni. Eppure questa immensità sembra non bastarle mai, condannando l’Orso, riconosciuto simbolo del paese, a non considerarsi mai sazio. E proprio questa sorta di bulimia pantagruelica sembra in ogni tempo rappresentare il suo più grande problema. Suo malgrado.
Alla base di questa insaziabilità (di mare, di terre coltivabili, di spazi vitali, di uomini) troviamo alcune motivazioni primarie. Intanto il desiderio atavico di trovare uno sbocco verso un mare caldo con il conseguente libero accesso alle rotte commerciali più ricche e battute. In secondo luogo la paura della propria vulnerabilità, specialmente da ovest e da sud-ovest laddove la geografia ha posto ben poche barriere naturali, oppure si è divertita a mescolare un patchwork di genti e culture diverse (l’instabile Caucaso); infine l’ossessione del controllo di quelle sterminate lande orientali quasi abbandonate a se stesse: un problema non di poco conto se si considera il sottodimensionamento della popolazione e un trend di natalità che non promette nulla di buono neppur per i prossimi anni. Un paese estremo insomma, vittima della propria grandezza che vive il suo più grande pregio, la vastità, con disagio ed inquietudine.
Il desiderio di crearsi uno sbocco in un mare caldo, principalmente nel Mediterraneo, è il sogno proibito che ha accompagnato generazioni di condottieri, zar, dirigenti sovietici e per ultimo Vladimir Putin. Lo stesso zar Pietro il Grande nel proprio testamento, redatto nel 1725, suggeriva ai suoi discendenti di “avvicinarsi il più possibile a Costantinopoli e all’India, perchè chiunque governi laggiù sarà il vero sovrano del mondo”. La Storia però ci dice che alla Russia non è andata benissimo da quel punto di vista. A lei toccano infatti i porti dell’Artico, come Murmansk o Arcangelo, che devono fare costantemente i conti con la morsa del ghiaccio per diversi mesi all’anno; o Vladivostok, il più grande porto russo sull’Oceano Pacifico, che oltre a rimanere bloccato dal gelo in inverno, si apre ad uno spazio in pratica dominato dai giapponesi, e in definitiva si trova pur sempre a più di 8mila km da Mosca. Mentre i porti sul Baltico, nonostante non ghiaccino, vengono comunque controllati commercialmente dai paesi scandinavi, oltre che dai paesi baltici molto spesso ostili verso Mosca, per via delle vecchie ferite sovietiche. Tutto ciò impedisce alla flotta russa di operare su scala globale con le mani libere. La mancanza di un porto in acque calde, affacciato direttamente sugli oceani o sul Mediterraneo, è sempre stato il tallone d’Achille della Russia.
L’invasione dell’Afghanistan nel 1979 fu vista in quest’ottica, ma l’operazione si rivelò una sorta di Caporetto (o se si vuole di Vietnam per gli Usa) condannando ancora una volta la Russia a questa sorta di costante frustrazione. Dopo il fallimento dell’Afghanistan, la strategia scelta dal Cremlino per fare breccia nel Mediterraneo è passata dunque per un rafforzamento della sua posizione nel Mar Nero con l’istituzione delle basi navali di Novorossiysk e Sebastopoli. Ma il Mar Nero, lo sa molto bene Mosca, non è un mare aperto. Il passaggio di eventuali navi da guerra dal Bosforo nello stretto dei Dardanelli infatti è severamente regolato dalla Convenzione di Montreux. E’ notizia di qualche settimana fa che il “sultano” Recep Tayyp Erdogan, presidente della Turchia che controlla l’importante Stretto, alle prese con le sue scalpitanti manovre in un continuo e oscillante braccio di ferro con la Russia e con la Nato (di cui la Turchia è membro dal lontano 1952), abbia minacciato di voler mettere in discussione il transito delle navi militari russe da e per il Mar Nero. Un bluff probabilmente, che serve ad Ankara per negoziare qualche altra concessione, ma pur sempre una noia per Mosca, abituata a prendersi quello che le spetta, senza troppe negoziazioni.
Una ragione in più per Mosca per puntare sul Mediterraneo orientale. Sfruttando il conflitto siriano nel 2017, Vladimir Putin ha trovato il modo di fare il proprio ingresso stabilmente a due passi da Beirut. In cambio del supporto a Bashar al-Assad, dominus della Siria, il Cremlino ha infatti ottenuto la base aerea di Hmeimim sulla costa siriana e poi, poco lontano da lì, la revisione degli accordi sulla base navale di Tartus prolungando l’atto di proprietà russa della struttura per altri 49 anni. Anche se l’accesso dalle due basi militari siriane alla madrepatria o viceversa risulta quanto mai accidentato, costretto a seguire un percorso che si fa largo attraverso la Turchia curda per poi sfociare nella polveriera del Caucaso dove i russi non godono di particolari popolarità, se si esclude l’Armenia. Oppure, costretto ad aggirare il Caucaso costeggiando il Mar Caspio orientale, scomodando il guardingo Iran, che della Russia è stato ultimamente un discreto vicino di casa. Un percorso comunque non scevro di problematiche anche questo.
Recentemente poi, nel corso della guerra civile libica Mosca, giocando un ruolo chiave nel conflitto a sostegno delle forze del generale Khalifa Haftar, ha allargato la sua sfera d’influenza nel Mediterraneo e nell’Africa settentrionale rafforzando i legami con altri paesi, soprattutto con l’Egitto. Di poche settimane fa infine la notizia che il governo del Sudan e la Russia hanno rinegoziato un accordo in merito ad un progetto militare russo nel Mare Rosso. L’accordo, che durerà 25 anni, comporta la costruzione di un hub logistico per navi da guerra a propulsione nucleare, un presidio stabile di 300 militari a Port Sudan e la possibilità di traghettare armi senza ispezioni. Ma soprattutto questa operazione darà la possibilità alla Russia di mettere piede nell’Africa centrale, ricca di quelle materie prime che fanno tanta gola.
All’ossessione per lo sbocco verso un mare caldo, la Russia sembra unire un’altra costante che ne regola le scelte in campo militare e strategico: l’angoscia collegata alla difesa del suo immenso territorio e dei propri confini, sprovvisti il più delle volte di difese naturali. A a buona ragione, si potrebbe dire. Non sono state poche le minacce esterne subite nel corso dei secoli dalla Russia, a partire dagli innumerevoli episodi della guerra russo-turca che, a cavallo del XVI e del XX secolo vide la potenza zarista fronteggiare l’allora egemone impero Ottomano. Mentre fra le guerre più cruente, in cui i russi furono chiamati drammaticamente a difendere i loro confini, una menzione particolare meritano la Campagna di Russia, l’invasione delle truppe napoleoniche nel 1812, e l’Operazione Barbarossa, l’aggressione dell’Unione Sovietica durante la seconda Guerra Mondiale ad opera delle truppe del Terzo Reich, passata alla storia come la più vasta operazione militare di tutti i tempi.
In entrambi i casi le due campagne si rivelarono fallimentari per gli aggressori, imprimendosi comunque in maniera indelebile nell’immaginario collettivo russo: a causa degli aspri e incessanti scontri e per le miserevoli condizioni di vita cui fu costretta la popolazione civile oltre che quella militare. In entrambi i casi, infine, la minaccia più grande arrivò dall’Occidente dove la geografia sembra aver disegnato quasi un’ampia autostrada che collega il nord della Francia a Mosca, senza particolari ostacoli naturali. Ed è proprio da quel lato che arriva la minaccia più pericolosa per Mosca, dopo la caduta del muro. Oggi più che mai lo spostamento ad est della Cortina di ferro e la sempre più pressante prossimità di basi Nato fanno tremare le vene ai polsi di Putin. Minaccia che durante il periodo dell’Unione Sovietica sembrava remota e che ora invece pare togliere il sonno all’apparato del Cremlino. Specie da quando le Repubbliche Baltiche, la Polonia e la Romania, in virtù della loro nuova appartenenza alla Nato, hanno cominciato ad ammassare importanti contingenti americani all’interno dei loro confini.
E’ innegabile che ancora oggi, a distanza di 30 anni ormai, Mosca si “mangi le mani” per come è potuto succedere l’irreparabile, quello di perdere cioè in un colpo solo, allo sfaldarsi dell’Unione Sovietica, pezzi importanti su cui il Cremlino estendeva potente i suoi tentacoli: in primis l’Ucraina, ferita mai rimarginata dalle parti di Mosca, poi tutta la sfera d’influenza del Patto di Varsavia e via via tutti i paesi della cintura sud ovest: i vari “–stan”, Kazakistan, Uzbekistan etc. Di questi ad oggi solamente il Kazakistan, il Kirghizistan e il Tagikistan mantengono la presenza di contingenti militari russi, dimostrandosi di fatto legati ancora a doppio mandato con Mosca. Oltre all’Armenia, fresca reduce dal conflitto rovinoso contro l’Azerbaijan.
A voler fare la conta degli amici ex sovietici, la lista si esaurisce presto, aggiungendo ai precedenti appena citati la sola Bielorussia. Mentre il resto dei paesi dell’ex area sovietica, quando non apertamente ostili con la Russia, le sono indifferenti, specialmente quelli “autosufficienti” che non dipendono strettamente dalle sue forniture energetiche. Poi ci sono alcune regioni attualmente contese su cui Mosca non molla la presa per ragioni geopolitiche. La regione ad est dell’Ucraina, il Donbass, è un’area appartenente all’Ucraina sulla quale da anni ormai Mosca applica una costante pressione con una guerra a bassa intensità. Altra eccezione, non ufficialmente riconosciuta, infine la striscia della Transnistria, appartenente alla Moldavia, ma che nei fatti Mosca controlla e che risulta essere molto importante dal punto di vista geopolitico perché racchiude quasi avvolgendola da ovest l’Ucraina. Un’altra spina nel fianco di Kiev, considerata da Mosca, non è un mistero: il traditore numero uno. E certamente l’Ucraina è ritenuta da Mosca come il più pericoloso player fra i “nuovi nemici”, specie se un giorno dovesse essere ammessa all’interno della Nato. Scenario che Mosca, fa capire, contrasterebbe con ogni mezzo e che rende l’Ucraina il terreno di scontro più impegnativo, pericoloso e caldo nella partita contro gli americani e la Nato.
Parlando di geopolitica, insieme alla paura (delle guerre) e al desiderio mai sopito (di un mare caldo) della dirigenza politica russa, non si può tralasciare un’altra importante variabile: il preoccupante calo demografico che non sembra arrestarsi e che pone più di un problema per un paese di questa portata. Oggi i russi sono 145 milioni. Decisamente troppo pochi se paragonati alla popolazione del resto delle potenze mondiali: un decimo dei cinesi, meno di metà degli americani e un terzo degli europei, un ottavo degli indiani, persino anche meno di nigeriani e pakistani. E soprattutto i russi sono pochissimi se rapportati all’immensità del territorio che politicamente e militarmente controllano.
Dal Gran Principato di Moscovia, passando attraverso Pietro il Grande e Stalin per arrivare a Putin, ogni leader russo si è dovuto misurare quasi sempre con gli stessi problemi, indipendentemente dall’ideologia di chi ha guidato il paese, zarista, comunista, o neocapitalista: le acque dei porti che continuano a gelare e la pianura del nord Europa che è sempre piatta e che consente agli aggressori di raggiungere facilmente Mosca e le città russe. E infine il problema della bassa densità della propria popolazione.
E’ così che, pur avendo ancora tante riserve di materie prime (specie gas e petrolio), l’ Orso Russo si scopre fragile e costantemente affamato: seduto a cavallo del mondo ma con la sensazione di essere sospeso, senza poter puntare saldamente i piedi per terra. Da un lato sentendosi compresso dalla pressione del Dragone Cinese, con il quale comunque in alcune aree condivide interessi economici e geopolitici; dall’altro rintuzzato dal ritorno in grande spolvero dell’Aquila americana che, dopo la parentesi di disimpegno di Trump, sembra essere tornata a dare sostegno e vigore alla Nato. Anche se sembra chiaro che i partner europei più importanti, Parigi Berlino e più defilata Roma, questa volta non si lasceranno sfuggire le lusinghe dell’Orso e sapranno mettere a frutto le buone relazioni coltivate in questi ultimi anni con Mosca. Che Washington lo voglia o meno.