di Giovanni Caruselli –
Anche se la presidenza di Donald Trump durerà quattro anni, gli elettori americani che lo hanno voluto alla Casa Bianca sanno che alla scadenza del suo mandato qualcosa sarà cambiato. Per questo e non per altro Trump rappresenta una svolta nella storia contemporanea americana. Altrettanto accade in Europa, dove la lenta ma costante crescita dei partiti di estrema destra sembra ormai avere un’importanza epocale e porterà a nuovi teoremi politici. Si potrebbe anche sperare che sia una parentesi storica, ma sarebbe comunque una parentesi lunga, travagliata e dagli esiti incerti.
Potere esecutivo e potere giudiziario.
Non possiamo ignorare che si sta delineando in ambedue i continenti una contrapposizione fra due poteri dello Stato, l’esecutivo e il giudiziario, e un indebolimento del terzo, il potere legislativo dei parlamenti. Da una parte i magistrati responsabili della difesa dei diritti previsti dai codici a tutela della persona, dall’altra i governi che percepiscono la legislazione vigente come una maglia di ferro sempre più stretta che si mostra inadeguata a gestire momenti difficili. Un giudice americano ha ritenuto di dover bloccare alcuni fra i primi provvedimenti del governo Trump, e altrettanto è avvenuto in alcuni Paesi europei fra cui l’Italia. Ciò fa notizia sui media, ma rientra in quel delicato sistema di equilibrio dei poteri sul quale è nata la democrazia. I casi più plateali di sospensione provvisoria delle leggi civili in tutte le epoche si registrano nel corso di guerre o quando è seriamente messa in discussione la sicurezza nazionale. La legislazione romana prevedeva la figura del dictator, con poteri assoluti per sei mesi, e durante la seconda guerra mondiale Franklin D. Roosevelt restò alla presidenza degli Usa per più di dieci anni.
Le destre vogliono cambiare le regole.
Ci chiediamo perché attualmente in molti Paesi occidentali avanzano formazioni politiche che premono i governi per l’assunzione stabile di provvedimenti che tecnicamente si definirebbero “eccezionali” per indicarne la loro severità e provvisorietà. Le deportazioni programmate, come ha voluto definirle Trump, non sono una prassi comune in tempo di pace, come non lo è la detenzione di immigrati irregolari in apposite strutture fuori dai confini dello Stato. Il presidente americano ha preannunciato che farà ampliare la prigione di Guantanamo, su territorio cubano, dove saranno detenuti individui ritenuti pericolosi per la sicurezza degli Usa. Ma sappiamo bene che di fatto una prassi molto simile è già praticata in Europa. Turchia, Libia, Marocco e altri Paesi rivieraschi ospitano centri di detenzione in cui sono ristretti centinaia di migliaia di immigrati che possono essere adoperati come strumento di ricatto economico e/o politico nei confronti degli Stati dell’Unione. Se attualmente fosse in atto una strategia politica ed economica per porre fine o ridurre i flussi migratori dall’Africa e dall’Asia, si potrebbe parlare di una prassi emergenziale necessaria senza alternative.
Gli interessi dei paesi ricchi prevalgono su tutto.
Ma così non è. In molti Paesi dei due continenti citati la crescita demografica è estremamente alta e la migrazione è una necessità sofferta e dolorosa, sfruttata da organizzazioni criminali internazionali. In altre parole si ha l’impressione che si vada istituzionalizzando nei Paesi sviluppati una prassi che entra in rotta di collisione con il rispetto dei diritti conquistati in due millenni. In alcune delle arre da cui ha origine il flusso migratorio sono in corso conflitti ai quali non sono estranei interessi degli Stati più sviluppati. Si tratta spesso di guerre per procura in cui diversi gruppi autoctoni sono finanziati e armati da potenze del nord del mondo. Ciò accade per la corsa all’accaparramento di zone minerarie di speciale interesse o di mari che garantiscono un’alta pescosità o di regioni il cui controllo appare strategicamente vitale per ciascuna potenza di rilievo planetario. In questo contesto ci si può chiedere sinteticamente come si definisce la conflittualità planetaria attuale in rapporto alle correnti migratorie. A costo di apparire superficiali e poco diplomatici possiamo dire che si tratta di una guerra dei ricchi contro i poveri del mondo che vorrebbero fruirne di una parte.
La colonizzazione che non è mai finita.
Una sottile linea rossa congiunge la prima colonizzazione, operata dai Paesi europei a partire dal XVI secolo, per portare nel Vecchio continente l’oro e l’argento del Centroamerica, la seconda colonizzazione ottocentesca che aveva come obiettivo le materie prime più disparate, dall’allume al carbone, al petrolio, al caucciù, e infine la terza appena iniziata per le terre rare, il cobalto, il litio, il tungsteno e altri minerali.
Poiché i vecchi colonizzatori sono stati europei e americani è comprensibile che i Paesi poveri possano guardare ad altre aree planetarie con maggiore fiducia per il proprio sviluppo. Così Cina, India, Brasile, Sudafrica e altri incominciano a svolgere il ruolo di punti di riferimento per i più deboli. Anche se ciò non comporta necessariamente che essi agiranno in modo diverso rispetto ai vecchi colonizzatori. La legge della giungla è dura a morire.