di Giuseppe Gagliano –
Uomini armati hanno aperto ieri il fuoco contro un gruppo di turisti di diverse nazionalità nel Kashmir indiano, uccidendone almeno 27. A rivendicare l’attacco è stato il “Fronte della Resistenza”, costola locale di Lashkar-e-Taiba, organizzazione terroristica che si oppone alla ridefinizione demografica che cancella la minoranza musulmana della regione.
Il 5 agosto 2019, con un colpo politico orchestrato dal governo Modi, l’India ha revocato unilateralmente l’articolo 370 della Costituzione, che garantiva al Jammu e Kashmir uno statuto speciale. In poche ore uno dei compromessi più delicati della storia post-coloniale indiana è stato annullato, senza consultazione, senza dibattito parlamentare, e sotto coprifuoco.
La conseguenza immediata è stata la divisione dello Stato in due territori federali: Jammu e Kashmir da un lato, Ladakh dall’altro. Ma l’obiettivo a lungo termine si è rivelato ben più ambizioso: trasformare il tessuto sociale della regione.
Con l’abolizione dell’articolo 35A, che proteggeva il diritto dei residenti originari su lavoro, proprietà e diritti civici, il governo centrale ha aperto la strada a un piano di reinsediamento che molti analisti e attivisti locali definiscono apertamente come un processo di “ingegneria demografica”.
Nei due anni successivi oltre 84mila “non-residenti” hanno ottenuto certificati di domicilio. Alcuni di loro sono ex membri dell’esercito indiano o dipendenti pubblici; altri provengono da Stati lontani come Uttar Pradesh e Bihar. La concessione del diritto di proprietà e lavoro ha generato un lento ma costante trasferimento di popolazione, che sta modificando l’identità storica della regione.
L’obiettivo è chiaro: indebolire l’identità musulmana maggioritaria del Kashmir, spezzare la base sociale dell’irredentismo locale e trasformare l’opinione pubblica attraverso un nuovo equilibrio elettorale. A lungo termine, l’arrivo di nuovi elettori, lavoratori e proprietari terrieri permetterebbe a Nuova Delhi di affermare il proprio controllo non più con l’esercito, ma con la maggioranza demografica.
Il modello ricorda, per certi versi, la strategia israeliana nei Territori Palestinesi: urbanizzazione selettiva, cambiamento graduale delle proporzioni etniche, normalizzazione forzata attraverso infrastrutture, burocrazia e sicurezza.
La soppressione politica ha portato a un’escalation della presenza militare: si stima che il Kashmir indiano ospiti oltre 600mila soldati, il più alto rapporto truppe/abitanti al mondo. Internet è stato più volte bloccato per mesi, mentre centinaia di attivisti, giornalisti e politici locali sono stati arrestati preventivamente.
In parallelo è emersa una nuova generazione di resistenza: meno visibile, più fluida, spesso scollegata dai partiti tradizionali e più incline all’azione diretta. Il gruppo che ha rivendicato l’attentato del 22 aprile si inserisce in questa dinamica: piccole cellule armate con messaggi ideologici mirati, capaci di colpire simboli della “nuova normalità”, come il turismo o le famiglie appena reinsediate.
La comunità internazionale ha scelto il silenzio. Le grandi democrazie occidentali, interessate agli accordi commerciali con l’India, evitano ogni critica esplicita. Anche l’ONU, da anni marginalizzata, non ha più voce nel contenzioso.
Nel frattempo l’India promuove investimenti, promuove il turismo e presenta il Kashmir come un “caso di successo”. Ma dietro le brochure patinate restano la rabbia, l’occupazione e una popolazione che sente di essere stata trasformata da soggetto politico a oggetto territoriale.