di Giuseppe Gagliano –
C’è qualcosa di profondamente emblematico nella vicenda della megaprigione di Archidona, piccolo centro immerso nell’Amazzonia ecuadoriana. Una città di appena 8mila abitanti, dove più della metà della popolazione appartiene alla comunità Kichwa, si trova oggi al centro di un conflitto che non è solo sociale, ma culturale e ambientale. Il progetto di costruzione di un carcere di massima sicurezza, annunciato dal presidente Daniel Noboa, ha scatenato proteste che durano ormai da dodici giorni, segnando l’ennesima frattura tra il potere centrale e le comunità indigene.
Ad Archidona le proteste hanno raggiunto il culmine il 12 dicembre, quando centinaia di manifestanti, armati delle tradizionali lance Kichwa, hanno assediato il palazzo del governatore. Gas lacrimogeni, scontri con la polizia, barricate. Alla fine, i manifestanti hanno preso il controllo dell’edificio, oggi trasformato in una sorta di presidio popolare. L’immagine di queste tende improvvisate, coperte di manifesti che urlano “No al carcere di Archidona”, racconta più di mille parole il conflitto che dilania questa regione.
Non si tratta solo di un carcere, né della sua funzione di deterrenza contro la criminalità. Si tratta del simbolo di un modello di sviluppo imposto dall’alto, che non tiene conto né delle specificità locali né delle esigenze delle comunità indigene. Daniel Jaque, leader del Geoparco Napo Sumaco, lo ha spiegato chiaramente: “Prima della pandemia Archidona era una delle città più sicure del Paese. L’estrazione mineraria illegale ha già alterato questa realtà, e il carcere peggiorerà la situazione”. Un carcere che, ironia della sorte, sorge in una regione candidata a diventare il primo geoparco amazzonico riconosciuto dall’UNESCO.
L’idea della megaprigione prende chiaramente ispirazione dal presidente salvadoregno Nayib Bukele, celebre per le sue carceri modello, presentate come una panacea contro il crimine. Ma l’Ecuador non è El Salvador, e Archidona non è San Salvador. Il presidente Noboa sembra aver ereditato non solo l’idea, ma anche il piglio decisionista di Bukele, scegliendo di ignorare le proteste delle comunità locali e affidando i lavori a una società legata alla China Road and Bridge Corporation, lo stesso gruppo dietro progetti simili in altre zone del Paese, anch’essi contestati.
Questa scelta non è casuale. Noboa si trova a governare un Paese intrappolato tra una crescente crisi di sicurezza e un contesto economico fragile. La retorica della “tolleranza zero” contro il crimine è, oggi, uno degli strumenti preferiti dai governi in difficoltà. Ma a quale costo? Ad Archidona il carcere non rappresenta una risposta alla criminalità, bensì un atto di violenza simbolica contro una comunità che vive di agricoltura ed ecoturismo e che teme, giustamente, di vedere il proprio futuro compromesso.
Questa vicenda rivela una verità scomoda: in Ecuador, come in molte altre parti del mondo, le politiche di sicurezza diventano troppo spesso sinonimo di imposizione. La sicurezza non può essere realizzata sacrificando l’identità culturale e l’equilibrio economico delle comunità locali. Il carcere di Archidona, con i suoi 52 milioni di dollari di budget, è un monumento all’incapacità di ascoltare, di mediare, di rispettare.
Eppure le alternative non mancherebbero. Noboa stesso, prima di optare per i mega-carceri, aveva proposto l’idea di prigioni galleggianti nel Pacifico, una soluzione meno invasiva per le comunità locali. Ma la pressione politica, unita alla necessità di mostrare risultati rapidi, lo ha portato ad adottare un modello che, più che risolvere i problemi, rischia di aggravarli.
La protesta di Archidona è un avvertimento per tutti coloro che credono di poter risolvere i problemi con misure calate dall’alto. I popoli indigeni, custodi di un patrimonio culturale e ambientale unico, non possono essere trattati come un ostacolo allo sviluppo. La loro resistenza non è solo una difesa del proprio territorio, ma una battaglia per un modello di sviluppo più rispettoso e sostenibile.
Daniel Noboa farebbe bene a considerare questa lezione, prima che il megaprigione di Archidona diventi il simbolo di un fallimento politico più grande: quello di un governo che ha scelto di costruire muri invece di ponti.