di C. Alessandro Mauceri –
Ormai non importa più a nessuno dell’ambiente. E i risultati della COP16 Biodiversità lo dimostrano. Il 2 novembre a Cali, in Colombia, si sono chiusi i colloqui sulla biodiversità della COP16 delle Nazioni Unite. I dati del Ministero dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile della Colombia parlano di almeno 170 delegazioni che si sono confrontate per 12 giorni su temi delicati per il “futuro del pianeta”. Secondo le Nazioni Unite, al termine dei lavori sono state prese “diverse decisioni epocali, tra cui i primi accordi sui dati genetici della natura e sul riconoscimento delle persone di origine africana e delle popolazioni indigene come amministratori chiave negli sforzi di conservazione”.
I documenti però mostrano un quadro diverso. Tra le iniziative attese c’era il riconoscimento del ruolo di protagonisti dei popoli indigeni e delle loro comunità nella conservazione della biodiversità e quella di creare un organo sussidiario per loro ai sensi dell’articolo 8J della Convenzione. Un “nuovo organo sussidiario è un punto di riferimento per il resto del mondo, in cui le parti riconoscono la continua necessità della nostra piena ed efficace partecipazione, conoscenza, innovazione, tecnologie e pratiche tradizionali per raggiungere gli obiettivi della convenzione”, aveva affermato Camila Paz Romero, portavoce dei popoli indigeni al vertice. Un fondo globale per raccogliere dati e “informazioni di sequenza digitale (codici genetici provenienti da campioni di organismi che vengono spesso condivisi digitalmente) e dalla loro giusta ed equa distribuzione”.
Alla fine i lavori si sono arenati per la mancanza di accordo circa la provenienza delle risorse per finanziare questi fondi. Due anni fa, alla COP15, si era parlato di prelevare queste somme dai profitti delle grandi imprese e versarle sul Fondo Cali per finanziare le popolazioni indigene e le comunità locali, direttamente o attraverso i rispettivi governi. Ma alla COP 16 non è stato trovato un accordo definitivo tra i partecipanti. I paesi più ricchi si sono tirati indietro e si sono rifiutati di finanziare questo fondo (presi come sono a spendere miliardi di dollari in guerre che non porteranno a niente).
Due anni fa, 12 paesi (Austria, Canada, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Lussemburgo, Nuova Zelanda, Norvegia, Spagna e Regno Unito) si erano impegnati a versare una somma totale pari a 396 milioni di dollari. Ad oggi. Le somme che risultano effettivamente stanziate sono solo 244,62 milioni di dollari. Cifre ben lontane dall’obiettivo di raccogliere 30 miliardi di dollari entro il 2030. Ma soprattutto molti grandi finanziatori di questo fondo hanno deciso di tirarsi indietro. Una scelta che, come prevedibile, ha scatenato la reazione dei rappresentati di diverse nazioni africane e latinoamericane. Anche il meccanismo di monitoraggio per misurare i progressi dei paesi nel rispetto della tabella di marcia per proteggere la biodiversità è rimasto solo una promessa mai mantenuta.
“Colmare il divario finanziario non era solo un obbligo morale, ma era necessario per la protezione delle persone e della natura, che diventa ogni giorno più urgente”, ha dichiarato sabato An Lambrechts, della delegazione di Greenpeace alla COP16. “A una settimana dall’inizio della COP29, la mancata decisione su un fondo danneggia la fiducia tra i Paesi del Sud e del Nord del mondo”, ha detto Lambrechts.
Alla fine dei lavori della COP16 le discussioni su questi temi sono state sospese per la mancanza di negoziatori per raggiungere un accordo congiunto.
Una conclusione deludente ma che per molti non è una sorpresa. Gli Stati Uniti d’America, forse la più grande economia del mondo, è una delle due nazioni che non hanno mai ratificato la Convenzione sulla diversità biologica (l’altra è il Vaticano). E già prima dell’inizio dei lavori, anche l’UE aveva dichiarato che non avrebbe sostenuto la creazione di un nuovo fondo per i negoziati.