Algeria. La crisi migratoria incrina i rapporti con la Francia

di Giuseppe Gagliano

Il primo ministro francese François Bayrou ha lanciato un ultimatum all’Algeria, un mese, forse sei settimane, per accettare il rimpatrio dei suoi cittadini irregolari espulsi dalla Francia. L’iniziativaa messo a nudo una ferita che tra Parigi e Algeri non si è mai davvero rimarginata. La minaccia di rimettere in discussione gli accordi del 1968, che regolano i privilegi di ingresso e residenza degli algerini in Francia, è un’arma pesante, brandita dopo l’attacco di Mulhouse del 22 febbraio, dove un algerino irregolare ha ucciso una persona e ferito altre sette. Quattordici tentativi di rimpatrio falliti, ha denunciato Bayrou, sono “inaccettabili”. Ma dietro il linguaggio della fermezza si intravede un gioco più complesso, fatto di politica interna, eredità coloniale e tensioni regionali.
La Francia di oggi, alle prese con un’immigrazione che il governo vuole controllare a ogni costo, trova nell’Algeria un ostacolo e un simbolo. Gli accordi del ’68, firmati sei anni dopo l’indipendenza algerina, sono un residuo di un passato in cui Parigi cercava di mantenere un legame privilegiato con la sua ex colonia. Oggi, però, quel patto è sotto pressione: gli algerini rappresentano il 12,2% degli immigrati in Francia (dati 2023), e il rifiuto di Algeri di riprendersi i suoi cittadini irregolari è visto come un affronto. Bayrou ha promesso “il ricorso alla forza alle frontiere” e misure tecnologiche, come radar e satelliti a Mayotte, per arginare i flussi illegali. Ma il vero nodo è politico: senza la cooperazione dell’Algeria, il sistema di espulsioni francese resta un guscio vuoto.
Dall’altra parte Algeri risponde con durezza. Il ministero degli Esteri algerino ha accusato la Francia di cedere all’estrema destra, definendo le restrizioni sui visti una “provocazione” e paventando “conseguenze incommensurabili” sulle relazioni bilaterali. È una retorica che sa di orgoglio nazionale, ma anche di calcolo: l’Algeria non vuole apparire succube di un ex padrone coloniale, soprattutto in un momento in cui il suo ruolo regionale, dal sostegno al Polisario nel Sahara occidentale alla gestione dei flussi migratori verso l’Europa, le dà una leva strategica. La sospensione delle relazioni tra il Consiglio della nazione algerino e il Senato francese, dopo la visita di Gérard Larcher nel Sahara conteso, è un altro segnale: Algeri non intende cedere senza combattere.
Il caso di Mulhouse è il detonatore, ma le crepe erano già visibili. La disputa sul Sahara occidentale, dove Francia e Algeria sostengono fronti opposti (Parigi il Marocco, Algeri il Polisario), si somma alle tensioni sugli influencer algerini accusati di sobillare violenza in Francia e al destino dello scrittore franco-algerino Boualem Sansal, incarcerato ad Algeri e in sciopero della fame. Bayrou ha espresso “grande preoccupazione” per Sansal, ma il silenzio algerino su questo punto è eloquente. È una partita a scacchi dove ogni mossa, dai visti ai rimpatri, dalle parole ai silenzi, serve a misurare la forza dell’avversario.
Per la Francia il problema è doppio. Da un lato, il governo deve rispondere a un’opinione pubblica sempre più ostile all’immigrazione, amplificata da tragedie come Mulhouse. Dall’altro, sa che rompere con l’Algeria rischia di destabilizzare un rapporto già fragile, con ripercussioni che vanno oltre la gestione dei flussi migratori. Gli accordi del ’68 non sono solo un tecnicismo: sono un ponte tra due sponde del Mediterraneo, carico di storia e contraddizioni. Metterli in discussione potrebbe spingere Algeri a irrigidirsi ulteriormente, magari aprendo le porte a una crisi diplomatica più ampia.
E poi c’è l’Europa. Bayrou ha accennato a “evoluzioni legislative” per adeguarsi al patto UE su asilo e migrazione, ma la Francia sa che senza accordi operativi con i Paesi di origine – Algeria in primis – il controllo dei confini resta un’illusione. Algeri, dal canto suo, potrebbe sfruttare il suo peso geopolitico per negoziare da una posizione di forza, magari appoggiandosi a partner alternativi come Russia o Cina, che guardano con interesse al Nord Africa.
Cosa resta, allora, di questo scontro? Una crisi che è al tempo stesso locale e globale, dove l’immigrazione diventa il pretesto per regolare conti più antichi. La Francia vuole mostrarsi decisa, l’Algeria sovrana. Ma in questo braccio di ferro, il rischio è che entrambi finiscano per perdere: Parigi la credibilità di una politica migratoria efficace, Algeri la stabilità di un rapporto che, pur conflittuale, resta vitale. Per ora, il Mediterraneo rimane un confine che divide più di quanto unisca, e la storia tra questi due Paesi continua a scriversi in toni aspri.