7 ottobre: non dimenticare il massacro per dare forza alla diplomazia della pace

di Maurizio Delli Santi *

Era stato ampiamente previsto che gruppi violenti, anche se minoritari, avrebbero distorto il senso delle manifestazioni pro Palestina, tanto che le stesse principali associazioni palestinesi in Italia avevano annunciato di non aderire alle iniziative indette a ridosso del massacro del 7 ottobre. Sarebbe stato più sensato distinguere il ricordo di quel tragico momento di eclissi dell’umanità, che ha visto l’uccisione di 1200 ebrei, il ferimento di altri 4mila, la cattura di 250 ostaggi e disumane atrocità per donne e bambini, dalla protesta per la reazione armata di Israele che ha colpito Gaza causando distruzioni e 42mila vittime civili, tra cui migliaia di bambini. Si ripropone il tema della crisi dei tempi, ove i messaggi ideologici giungono confusi, contaminati dalle campagne di disinformazione e dalla comunicazione superficiale e aggressiva dei social poco attenti alla complessità e al confronto. Ferma restando l’incomprensione storica tra Stati e popolazioni di quell’area in cui si sono succeduti conflitti, ondate di terrorismo e labili periodi di pacificazione, la situazione che si è delineata è interpretata in una certa maggioranza di giovani (come anche da meno giovani connotati da passate ideologie) solo dalla parte della causa palestinese, in cui l’istanza di autodeterminazione ancora irrisolta risponde a un forte bisogno di riscatto sociale e di dignità di un popolo che vive in condizioni di precarietà ed emarginazione.
Soccombe quindi il sostegno per Israele, e si dimentica ciò che la Storia dell’Olocausto ha rappresentato anche per l’affermazione dei valori di libertà e umanità delle democrazie dell’ Occidente. In questa prospettiva, la strage di Hamas è stata vista come un esasperato “atto di resistenza all’occupazione”, l’estremizzata reazione alle responsabilità storiche di Israele ed in particolare dell’ ultimo governo di Netanyahu che ha accantonato il modello dei “due popoli, due Stati”, favorendo le politiche espansioniste dei coloni oltre che la delegittimazione dell’Autorità palestinese in Cisgiordania. Prospettive diverse appaiono poco rilevanti per i movimenti di opinione sollevatisi contro Israele e i suoi alleati, come l’obiezione che le morti sotto i bombardamenti di Gaza vanno ricondotte soprattutto alle responsabilità dei leader di Hamas che hanno usato i civili come “scudi umani”. Già in fase antecedente agli attacchi del 7 ottobre 2023 era emerso un cambio radicale dell’autorappresentazione del “Partito di Dio” che ha sconfessato la scelta quietista affermata nel 2017 con le modifiche apportate allo Statuto originario dell’organizzazione. Questo conteneva espliciti richiami ideologici alla jihad della Fratellanza Musulmana, e all’obiettivo “esistenziale” di annientare il popolo ebraico in quanto ancestrale stirpe nemica di Maometto e della umma musulmana. Si è avuta perciò la conferma di quanto già ipotizzato dagli analisti: in quel momento storico Hamas aveva compiuto solo una scelta di “convenienza tattica” perché mirava ad avvicinare i Paesi arabi, soprattutto Egitto e Giordania, che erano riusciti a liberarsi dalle derive della radicalizzazione e dagli ultimi fondamentalisti della Fratellanza. Hamas nel frattempo ha dirottato gli ingenti aiuti finanziari per armarsi e apprestare postazioni difensive, e quando si è vista piombare in una fase critica dei consensi tra la popolazione, vessata da un sistema di potere che non le ha garantito né prosperità né democrazia, ha cercato di rilanciare la sua leadership infiammando il risentimento palestinese contro Israele.
Il disegno ha collimato con gli interessi della potenza regionale storicamente rivale di Israele, quell’Iran sciita che persegue la destabilizzazione nell’area per affermare la sua egemonia, armando, finanziando e indirizzando i proxies del c.d. “Asse della Resistenza”: la stessa Hamas (la cui matrice sunnita non ha rappresentato un ostacolo), Hezbollah in Libano e le altre milizie sciite in Siria e Iraq, fino ad arrivare agli Houthi, che dallo Yemen hanno bloccato il flusso del commercio marittimo mondiale nel Mar Rosso e lanciato anch’essi missili micidiali su Israele. La successione degli eventi è nota, ed appare ora ben delineare la strategia di Netanyahu: neutralizzati i leder di Hamas e debellato il grosso dell’organizzazione a Gaza, concedendo forse ancora uno spazio ai negoziati per liberare gli ostaggi sopravvissuti, Israele ha deciso di rivolgersi contro Hezbollah, colpendo le basi da cui vengono lanciati migliaia di missili su Israele. Dopo la detonazione dei cercapersone utilizzati dai miliziani, Israele il 27 settembre ha lanciato l’operazione New Order, giungendo ad eliminare il leader Hassan Nasrallah, figura carismatica del movimento sotto la protezione della guida suprema Khamenei.
Lo scenario evolve dunque verso la deflagrazione di un conflitto regionale senza precedenti. Il defunto leader Hassan Nasrallah è ora ricordato come il fautore di una tregua (un merito poco fondato, secondo fonti indipendenti), ed è diventato un martire dell’Islam: si vorrebbe che la sua tomba sia eretta a Kerbala, città sacra dell’Iran legata ai miti fondativi dell’Islam sciita. Inoltre la Guida suprema Khamenei per commemorare la morte di Nasrallah è tornato a guidare, per la prima volta dal 2020, i sermoni durante le preghiere del venerdì a Teheran: il leader supremo è apparso davanti a decine di migliaia di fedeli con un fucile al fianco e ha parlato sia in farsi, la lingua iraniana, sia in arabo per rivolgersi a tutta la umma musulmana anche dei Paesi Arabi (l’Iran non è tra questi, come la Turchia). L’appello di Khamenei è stato chiaramente rivolto ad infiammare gli animi di tutto il mondo musulmano, sia sunnita che sciita, ma sinora le piazze arabe non si sono sollevate per spingere i loro leader a schierarsi contro Israele. Una exit strategy è necessaria se Israele vuole evitare l’irreparabile fine degli ostaggi, un definitivo isolamento internazionale, che ha già palpato alle Nazioni Unite, e l’allargamento del conflitto: si teme la minaccia terrorista internazionale, che potrebbe colpire facilmente gli ebrei e le sedi diplomatiche all’estero, ma anche altri obiettivi occidentali. Russia e Cina potrebbero essere anche più attivi nel sostenere l’Iran, e il turco Erdogan si è detto pronto a intervenire a fianco dei palestinesi e dei libanesi. L’ago della bilancia che potrebbe evitare la deriva sembra dunque rimanere in Medio Oriente, proprio nel Mondo Arabo moderato. Finora Egitto, Giordania e Arabia Saudita in testa si sono guardati dal sostenere Hamas per il suo richiamo ideologico alla Fratellanza Musulmana che hanno allontanato con fatica dai loro territori, e anch’essi temono il disegno egemonico dell’Iran. D’altro canto soprattutto i sauditi sono fermi nel sostenere la soluzione dei due Stati. La diplomazia, purché si mobiliti con maggiore determinazione, dovrebbe perciò convincere Netanyahu a misurarsi con le attese del Mondo Arabo non radicalizzato, per non mandare all’aria proprio ciò per cui si erano mossi l’Iran e Hamas con l’attacco del 7 ottobre: miravano a far saltare il percorso di pacificazione intrapreso con gli Accodi di Abramo, presentati ai palestinesi come “la morte” della soluzione dei due stati. Quell’alleanza tra Israele e i Paesi Arabi potrebbe invece puntare ancora a un quadro di stabilità regionale, in cui definire anche la questione palestinese, oltre a una linea comune contro il ritorno del jihadismo e la minaccia destabilizzante, inclusa quella nucleare, dell’Iran: a Teheran a questo punto potrebbe anche maturare un regime change che dia spazio ad una leadership meno oscurantista, che torni a dialogare con Israele e l’occidente.

* Membro dell’ International Law Association.