G20. Napoli, stallo sull’accelerazione della decarbonizzazione

Ma nuove convergenze sulle altre strategie per il clima, energia, biodiversità, tutela degli oceani.

Le aspettative sull’accelerazione dei processi della decarbonizzazione, con un impegno a rimanere sotto 1,5° già entro il decennio e alla carbon neutrality entro il 2025, sono sfumate per le resistenze di Paesi come Cina, India, Russia, Australia, Arabia Saudita e Brasile, i Paesi che sono più preoccupati per le ricadute economiche di ulteriori restrizioni, specie nell’ impiego delle risorse fossili e degli idrocarburi. Ma, in vista del G2O di ottobre e della PreCOP26, è plausibile che un ulteriore sforzo negoziale possa far riavvicinare all’obiettivo della decarbonizzazione anticipata proprio la Cina, che potrebbe essere attratta dai vantaggi competitivi sulla transizione verde. Nell’insieme, il vertice del G20 di Napoli non va valutato in termini di insoddisfazione, perché sui 60 punti nell’agenda del Communiqué ben 58 sono stati condivisi, e diversi di questi rappresentano nuove convergenze delle 20 più grandi economie del mondo su altri temi rilevanti come la biodiversità, la finanza verde e l’economia circolare, il modello delle città ecosostenibili e la tutela degli oceani.
In ogni caso, al G20 di Napoli si è tornati a parlare il linguaggio delle “relazioni internazionali”, della cooperazione e del multilateralismo, una prospettiva certamente più incoraggiante per affrontare le sfide del millennio.

di Maurizio Delli Santi * –

Il G20 di Napoli su “Ambiente, Clima ed Energia”, svoltosi il 22 e 23 luglio, era stato annunciato dalla Presidenza di turno italiana con l’obiettivo ambizioso di ottenere la convergenza delle 20 più grandi economie del mondo sul tema della accelerazione della decarbonizzazione. I tempi sembravano infatti ormai maturi per una intesa in vista della UNFCCC COP26, la 26^ Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, che si svolgerà ad ottobre e Glasgow dal 31 ottobre al 12 novembre 2021 per rinnovare l’accordo di Parigi.
In effetti, le aspettative erano giustificate dopo i risultati raggiunti al G7 di Carbis Bay, svoltosi dall’11 al 13 giugno, dove i 7 Paesi più industrializzati, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, si sono impegnati a dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030, mantenendo a regime l’aumento della temperatura di 1,5 gradi. In particolare al G7 si è raggiunta l’intesa di perseguire entro il 2030 “un taglio collettivo delle emissioni della metà rispetto al 2010 e di oltre la metà rispetto al 2005”, e di destinare ai PVS 100 miliardi l’anno da investire in energia pulita. E faceva ben sperare anche il pacchetto climatico “Fit for 55” adottato il 14 luglio dalla Commissione europea, che ha avviato all’iter legislativo la proposta di raggiungere entro il 2030 l’obiettivo del Green Deal, la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra del 55% rispetto ai livelli del 1990, per rendere più realistica la possibilità di arrivare alla “carbon neutrality” entro il 2050.
Peraltro, alla vigila del G20 un efficace assist al proposito di compire un passo avanti nelle intese sul clima era venuto dall’autorevole intervento dell’inviato speciale Usa per il clima, John Kerry, il quale ha dichiarato “Il G7 è stato un grande successo per gli impegni sottoscritti: non finanziamento di impianti a carbone all’estero, riduzione delle emissioni nel 2020-2030 e riduzione della crescita della temperatura terrestre a 1,5 gradi. Credo possiamo riuscire a procedere su questa strada con il pieno sostegno del G20″.
Gli sherpa del G20 di Napoli avevano quindi elaborato il progetto del Communiqué, il documento finale che suggella l’intesa dei 20 Paesi, prevedendo 60 punti, di cui due erano estremamente importanti e innovativi per le intese sul clima, su cui avevano fatto grande affidamento la Presidenza italiana e in particolare il Ministero della transizione ecologica: il primo prevedeva l’incremento dei tagli alle emissioni per non superare entro il 2030 la soglia di 1,5 gradi di riscaldamento globale rispetto all’era preindustriale e il secondo l’eliminazione del carbone dalla produzione energetica al 2025.
Se i due emendamenti fossero passati sarebbe stata davvero una svolta epocale nella sfida sui cambiamenti climatici, se si considera che una scelta degli Stati del G20 significa di fatto un impegno delle 20 più grandi economie del mondo, che rappresentano l’80 % del Pil mondiale e sono responsabili dell’85% delle emissioni globali di CO2.
Ma il negoziato su questi punti si è rilevato molto complesso e ha rischiato di compromettere anche le intese sugli altri 58 punti, che pure riguardano importanti aspetti, specie sulla tutela della biodiversità e sulla economia circolare.
Nonostante la convergenza di Usa, Europa, Giappone e Canada sulla accelerazione, l’opposizione sui due punti è stata ferma da parte di Cina, India, Russia, Australia, Arabia Saudita e Brasile, che pur confermando di rimanere nei limiti dell’Accordo di Parigi – dato di non poco conto, visto che a suo tempo l’America Trump se ne era discostata – si sono dichiarati preoccupati sostanzialmente per le ricadute economiche di ulteriori restrizioni specie nell’impiego delle risorse fossili e degli idrocarburi.
I due punti in discussione sono stati quindi estratti dal documento finale per essere portati comunque al G20 conclusivo di Roma del 30 e 31 ottobre, a livello della discussione politica più alta dei Capi di Stato e di Governo, anche se sul punto occorrerà qualche ulteriore aggiustamento delle formule perché effettivamente l’assunzione di impegni entro dieci anni può apparire troppo stringente a meno che non si garantisca qualche clausola più incentivante o derogatoria.
Cina e India sono preoccupate che la fase di crescita economica che stanno vivendo possa essere compromessa dalla rinuncia alle fonti fossili, mentre Russia e Arabia Saudita guardano alle loro economie che ancora per molti aspetti risultano competitive proprio sulla forte disponibilità di idrocarburi. E la posizione di Cina e India, i paesi che ospitano il 37% della popolazione mondiale e contano rispettivamente 1,44 e 1,39 miliardi di persone, ha a favore proprio l’argomento demografico: se si considera l’enorme divario del dato delle emissioni pro capite, a loro avviso sarebbe ingiusto pretendere da essi gli stessi sacrifici che vengono richiesti a paesi con tassi di popolazione infinitamente più bassi, come ad esempio la stessa Italia o la Germania che insieme arrivano a poco meno di 150 milioni di abitanti.
Va pure detto che anche per gli altri Paesi industrializzati non è facile rinunciare strategicamente alle fonti fossili, anche perché occorrerebbero risorse e anche tempi non brevi per sviluppare energie alternative con la realizzazione di centrali solari ed eoliche. Anche il programma del Green Deal europeo e del Fit for 55 in realtà è ancora a rischio in Europa, perché non sono pochi i Paesi preoccupati che un processo accelerato sulla decarbonizzazione possa danneggiare le industrie nazionali dell’acciaieria e dell’automotive. Per non parlare della Francia, ancora turbata dalle vicende dei gilet gialli, la protesta nata dalla tassazione sui carburanti considerata discriminatoria per chi non ha redditi adeguati per acquistare un’auto elettrica o investire in efficientamento energetico.
D’altro canto un altro elemento a sfavore è rappresentato dalla circostanza che se non viene raggiunta una intesa globale c’è il rischio del “dumping ecologico”: se da un lato i paesi più industrializzati si impegnano a produrre acciaio con tecnologie “pulite”, dall’altro lato altri paesi che non adottano analoghi standard ecosostenibili potrebbero competere nelle esportazioni dell’acciaio a costi più bassi.
In sostanza, occorre ancora superare molte riserve per pensare ad una intesa sulla accelerazione degli obiettivi della decarbonizzazione e della riduzione della temperatura globale.
Sul punto, probabilmente ci sarebbe ancora molto da argomentare per indurre i Paesi refrattari ad un ripensamento: a dire il vero, proprio i più recenti eventi catastrofici avvenuti in Germania, ma anche le già gravi situazioni climatiche e di sofferenza in cui si trovano larghe fasce delle popolazioni asiatiche dovrebbero indurre proprio India e Cina, per prime, a ripensare meglio alla convenienza comune sull’ anticipazione degli obiettivi, che potrebbe rilevarsi anzi pienamente in linea con le loro aspirazioni alla espansione economica.
E su quest’ultimo aspetto un esempio di come una accelerazione nei processi della transizione ecologica possa rappresentare un’opportunità per la crescita viene proprio dalla Cina: nonostante le accuse di essere il principale produttore di CO2 con oltre il 30% delle emissioni globali, il modello economico cinese è già competitivo nella transizione verde, posto che, ad esempio, detiene il 90% del mercato globale dei pannelli fotovoltaici.
Probabilmente i negoziatori del G20 che dovranno lavorare per il vertice di ottobre dovranno meglio orientarsi per tempo a ricercare il dialogo su questi profili principalmente con la Cina, che – come ha osservato un suo attento conoscitore, Federico Rampini – proprio in questi giorni è preoccupata per la resa del carbone nella produzione di energia per le sue industrie: la repubblica popolare sta subendo una serie di blackout elettrici a ripetizione, fenomeno già diffuso in India, che è indizio evidente dei limiti del sistema energetico che deve sostenere l’attuale fase di espansione dell’industria cinese. Agli europei e agli americani che mirano all’abbandono del carbone non resta che rimarcare anche questo dato oggettivo per far riconsiderare alla Cina le opportunità di un modello energetico più efficiente ed ecosostenibile. In sostanza, con una buona capacità negoziale si potrebbero prospettare alla Cina diversi vantaggi competitivi: visto che Pechino sta investendo sulle auto elettriche e conta di valorizzare le esportazioni delle sue componenti, i c.d. “minerali rari”, se si accelerano gli obiettivi della decarbonizzazione a livello globale non potranno che derivare maggiori vantaggi per l’economia cinese.
D’altro canto, la stessa Cina ma anche gli altri Paesi refrattari all’accelerazione sulla riduzione delle emissioni si troverebbero anche a dover fronteggiare un’altra prospettiva che l’Unione Europea ha già messo in atto e sulla quale anche gli USA stanno ipotizzando iniziative: si tratta dell’inasprimento delle misure note come la “carbon border tax”, che in realtà è un sistema articolato di dazi ed efficaci deterrenti sulla produzione e quindi sull’export/import di carbone e idrocarburi, uno scenario che dunque non può che preoccupare quanti ancora ritengono di poter fare affidamento su queste fonti altamente inquinanti, per le quali si richiede dunque un “prezzo” maggiore da pagare.
Con tutte queste argomentazioni l’auspicio sarebbe perciò quello di trovare una sponda proprio nella Cina, forse più sensibile a tali aspetti, meglio stavolta in un incontro non virtuale, visto che certamente sulla negoziazione di Napoli ha inciso anche la modalità adottata della videoconferenza, un tavolo di concertazione non proprio ideale specie per l’esercizio della diplomazia o per condividere i ragionamenti su un accordo internazionale così importante come quello sul clima.
Ciò premesso, nell’insieme dell’agenda dei lavori il vertice del G20 di Napoli non va valutato in termini di assoluta insoddisfazione, perché in effetti, come si è detto, gli obiettivi sul clima erano particolarmente ambiziosi. Peraltro va sottolineato che comunque nessuno ha posto in discussione gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e che è stato rinnovato l’impegno di favorire la transizione ecologica dei Paesi in via di sviluppo assegnando loro ben 100 miliardi di dollari e ulteriori incrementi annuali fino al 2025.
In definitiva, se si ragiona in termini di punti dell’intesa approvati il bilancio è più che favorevole: sui 60 punti del Communiqué ben 58 sono stati tutti condivisi, un risultato che l’assemblea ha giustamente salutato con un fragoroso applauso. Diversi di questi punti rappresentano le nuove convergenze delle 20 più grandi economie del mondo su altri temi rilevanti.
Una di queste che merita essere menzionata riguarda l’approccio “coordinato” ai temi dell’ambiente, della tutela della biodiversità, del clima, dell’energia e della povertà, una visione strategica che era apparsa ancora incerta. Sul punto al G20 di Napoli sono state ricordate le conclusioni del Report presentato il 10 giugno u.s. dall’IPBES, Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, e dall’IPCC, Intergovernmental Panel on Climate Change, i due organi intergovernativi che si occupano rispettivamente di biodiversità e di cambiamenti climatici. Gli oltre 50 scienziati dei due istituti hanno sottolineato l’importanza di superare l’approccio, ancora oggi largamente diffuso, di considerare emergenze separate quella ambientale e quella climatica, evidenziando invece che “la mitigazione e l’adattamento a un clima in cambiamento, la tutela della biodiversità e il benessere umano sono obiettivi strettamente interdipendenti e inscindibili l’uno dall’altro”. Ad esempio, rispetto alle strategie di mitigazione per il cambiamento climatico ve ne sono alcune che possono rilevarsi deleterie per la preservazione della biodiversità. È il caso della riforestazione che, se non realizzata secondo determinati criteri, potrebbe avere effetti deleteri sull’abbondanza e sulla diversità delle specie: una riforestazione realizzata sotto forma di monocoltura può assorbire le emissioni di carbonio, ma può incidere sulla ricchezza biologica dell’ecosistema. Anche il largo ricorso alle energie rinnovabili potrebbe implicare un aumento della domanda di minerali rari, “la cui estrazione, utilizzo e smaltimento alla fine del ciclo di utilizzo hanno costi ambientali altissimi”. E al G20 di Napoli è stato ancora richiamato l’approccio “One Health”, il principio-guida evocato anche in ambito FAO che, nella sostanza, ritiene che la salute globale vada preservata assicurando una visione definita esplicitamente “olistica”, in cui sono un tutt’uno sicurezza umana, animale e ambientale.
Inoltre, va ricordato che tra i 60 punti c’è anche l’impegno volontario di alcuni Stati, che potranno anche incentivare gli altri a seguire l’esempio, a garantire che “almeno il 30% della terra e almeno il 30% dell’oceano globale siano conservati o protetti attraverso sistemi ben collegati di aree protette e altre efficaci misure di conservazione basate sulle aree entro il 2030”. La soluzione di incoraggiare anticipazioni nelle scelte è poi stata adottata in vari ambiti quali la tutela della biodiversità, la finanza verde e l’economia circolare, il modello delle città ecosostenibili e la tutela degli oceani e degli habitat marini, tutti argomenti che meriteranno specifici approfondimenti per valutare bene la portata delle condivisioni raggiunte.
In ogni caso, c’è assolutamente un dato di sintesi da porre in rilevo per il G20 di Napoli e per gli sforzi negoziali della Presidenza italiana: fra scenari internazionali in cui ancora qualcuno sostiene posizioni isolazioniste e sovraniste, al G20 si parla con il linguaggio delle “relazioni internazionali”, della “cooperazione” e del “multilateralismo”, una prospettiva certamente più incoraggiante per affrontare le sfide del millennio.

* Membro dell’International Law Association, dell’Associazione Italiana Giuristi Europei e dell’Associazione Italiana di Sociologia.